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Immagine del redattoredott. Rodolfo Vittori

Come un criceto nella ruota

Aggiornamento: 7 lug 2020

Oggi pomeriggio, come ogni mercoledì, di ritorno dalla visita ad un mio Cliente di Pordenone, ho imboccato l’autostrada e me ne sono andato in piscina a Monfalcone, senza passare da casa. Non posso passare da casa, altrimenti l’attrattiva del divano diventa molto forte e, quindi, preferisco andare a nuotare direttamente. E’ bello andare in piscina. E’ bello tutto, il rituale dello spogliatoio, la vestizione di costume, cuffia, tappanaso e occhialini, ma soprattutto è bello buttarsi in acqua. Sentirsi avvolgere dall’acqua, sentire questo liquido che ti sostiene e ti permette quasi di volare. E poi sentirsi un criceto nella ruota.

E si inizia a nuotare, una bracciata, poi un’altra e di seguito centinaia, migliaia. Venti, venticinque bracciate ad ogni vasca, seguendo la riga nera sul fondo che ti indica la direzione, che ti da la sicurezza di non perderti in questo azzurro che ti avvolge.

Come un criceto nella sua ruota, appunto, a ripetere all’infinito gli stessi movimenti, su e giù nella stessa corsia, assieme ad altri individui che sono lì chissà perché. Tanto non lo saprai mai, non hai tempo di fermarti, non hai tempo di scambiare due parole. Avanti, vasca dopo vasca a concludere quel piano di allenamento che hai segnato nella testa e che ti permetterà di essere in forma quando finalmente si potrà andare a nuotare in mare. Tra qualche mese.

E nuotare in mezzo a panzoni che ti danno fastidio perché vanno troppo piano e tu li devi necessariamente superare per mantenere il ritmo costante di allenamento. E nuotare in mezzo a gente palestrata, senza un filo di grasso, troppo veloce che ti sorpassa, e tu che ti chiedi che cosa ci trovano ad umiliarti in quel modo. Io in piscina sono come George Livanos, il grande arrampicatore francese degli anni ’50 che un giorno ebbi la fortuna di conoscere. Quando arrampicava nelle Calanques a Marsiglia, se qualcuno superava un passaggio usando più chiodi di quanti ne aveva usati lui era un incapace, se ne usava di meno, era un incosciente. Per me in piscina è la stessa cosa, la velocità giusta è la mia. Chi va più piano è un incapace, e chi va più veloce è un imbecille che chissà chi si crede di essere. Da bambino odiavo la piscina. Mio padre era un patito del nuoto e mi aveva obbligato a praticarlo dall’età di sei anni. Mentre i miei compagni di scuola se ne andavano a giocare a calcio al campetto, o a basket in ricreatorio (a Trieste ci sono i Ricreatori che sono come gli Oratori, ma sono istituzioni laiche), oppure giravano in bicicletta, io prendevo il tram numero 8 che mi scaricava proprio davanti alla Piscina comunale, che qualche anno dopo, si sarebbe chiamata “Bruno Bianchi”. Una struttura sulle rive, in Marina, con una vasca di 33 metri di lunghezza. Una misura strana, che non è amichevole come quella da 25, che non sei neanche partito che sei già arrivato, e non è infinita come quella da 50, che ti sembra non finisca più. Un bel compromesso, ma che io, dai 6 ai 13 anni ho amorevolmente odiato.

A nuotare mi hanno insegnato, ma poi, in tutta la mia vita, mi è servito soltanto a fare qualche veloce bracciata in mare, o in qualche lago di montagna. ma a nuotare veramente ho ripreso solo poco più di due anni fa. Quando è iniziata l’avventura del triathlon e, come spesso accade nella vita, quella tra le tre specialità che credevo avrei sopportato di meno, alla fine, è diventata la più bella, quella che mi piace di più, che mi permette per qualche ora, di isolarmi dal mondo, di inventarmi delle storie bellissime intanto che ripeto le bracciate, una dopo l’altra, apparentemente monotone, ma in realtà una diversa dall’altra, più o meno veloce, più o meno potente, più o meno profonda. In un mondo bellissimo che mi invento, ogni volta diverso, guardando quella riga nera sul fondo che mi indica la direzione verso l’isola che non c’è.

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